venerdì 7 agosto 2015

Sembrava una felicità, di Jenny Offill #nonunarecensione

@Laurindo Feliciano
direzione artistica: @46xy
@Enne Enne Editore

È già successo con Stanislaw Lem e "La voce del padrone" e ci ricasco con "Sembrava una felicità" di Offill (ci hai fatto caso che non ho usato la preposizione articolata per il introdurre il cognome della scrittrice Offill? Sto provando a disintossicarmi dalla grammatica maschia, che ha bisogno di marcare l'informazione di genere quando non è necessaria: come quando senti al TG "la Camusso" o "la Boschi". Non dicono "il Renzi" o "il Grillo". Perché sottolineare la differenza? Per una distanza? Per una rarità?). Dicevo, come è successo per Lem, ora io questo libro a chi lo consiglio?
Nel mio mondo perfetto, a tutti.
Ma il mondo è molto meno che perfetto, perché altrimenti le persone avrebbero già smesso da tempo di costruire automobili con i motori a scoppio, e gli scrittori avrebbero smesso da un pezzo di usare "un rumore sordo". Infatti, nel suo libro, Offill non ha usato nemmeno una volta "rumore sordo", ma non posso sapere se utilizza un'automobile a petrolio, quindi anche lei non si può dire perfetta, ma ci va molto vicino se mi soffermo a osservare la sua scrittura.
Ora, il malmostoso di turno, che ha smesso di leggere le altre parole del periodo precedente quando ha incontrato la critica indiretta, dirà che non c'è nulla di male nell'utilizzare "rumore sordo", e avrà ragione, perché l'ho inserito anch'io da qualche parte, per forza. È come pretendere di iniziare a camminare a nove mesi senza ricadere sui palmi almeno un centinaio di volte. Quello che "rumore sordo" ha e che Offill non ha è il concetto di scrittura a moduli. "Rumore sordo" è una di quelle locuzioni in vaschetta da tenere nel freezer. I rumori di Offill intanto sono molto precisi e non sono sordi, e poi sono cotti al momento dopo un attento ripasso della ricetta.
La cosa davvero buffa è che la scelta stilistica di Offill fa proprio pensare a dei moduli o a un errore, tanto che io ho comprato l'ebook e, complice la fretta di internet e abituato ad alcune formattazioni fatte in casa su Amazon, ho contattato NNEditore su Facebook affinché mi spiegasse perché gli accapo fossero tutti paragrafati. Dalle parti della casa editrice milanese sono molto cortesi e disponibili, perché a domanda gentile hanno risposto con un sorriso grande così (c'era davvero la faccina) e mi hanno spiegato che è stata una scelta dell'autrice. E io, ah, oh, già, sarebbe bastato leggere le prime pagine senza mettersi a scrivere di corsa, maledetta internet e maledetto me.
Quindi il fascino per questo libro era già tanto prima ancora di iniziarlo, perché sapeva di nuovo e perché avevo avuto modo di incontrare persone gentili: quella gentilezza che può arrivare solo dalla passione, non so se capisci quello che voglio dire, e se pensi che queste cose possano influire sul giudizio di un'opera letteraria, sì, possono farlo, perché siamo persone, siamo fallibili e usiamo "rumore sordo" e le macchine a scoppio, ma "Sembrava una felicità" rimarrebbe un bel libro anche senza niente di tutto questo, senza locuzioni congelate e senza motori, a patto però che nel mondo rimangano le persone, perché è di questo che parla il libro, di persone: una moglie e un marito, e sceglie di farlo prendendo pezzetti di ricordi di lei che diventano microstorie, a volte autoconclusive. Tutte insieme però formano il mosaico di una crisi. E che mosaico! Attento, non ho detto "che crisi!", perché spogliata di tutto la storia è molto semplice, qualcuno abituato ai "rumori sordi" direbbe "banale", ma è il modo in cui si sceglie di raccontare la banalità che rende bello guardare le stelle.
Tra un miniparafrago e un altro, Offill è come se lanciasse dei piccoli ganci che vanno ad artigliare quelli che seguiranno o a recuperare quelli che li hanno preceduti e lo fa nascondendo, invece di spiattellare tutto. È più bello giocare a nascondino in una savana o in un castello con centinaia di stanze in penombra?
Sull'ereader ho evidenziato venticinque pezzetti di "Sembrava una felicità" e solo perché non mi andava di perdere il ritmo, ma accidenti quanta intelligenza devono possedere le dita di questa donna, e quale capacità di osservazione.
Ti lascio un pezzo che fa su e giù come una montagna in pochissime righe, e alla fine della discesa ti fa vedere un mondo. Ecco:
Il marito e la moglie stanno litigando sottovoce. La modalità di combattimento concordata è a mani nude. Lei gli dà del vigliacco. Lui della puttana. Però non sono ancora molto allenati. A volte uno dei due si ferma all’improvviso e offre all’altro un biscottino o qualcosa da bere.
Oppure eccone un altro che incornicia ventimila anni di esistenza:
Il mio piano era non sposarmi mai. No, io volevo diventare un mostro d’arte. Le donne non diventano mai mostri d’arte, perché i veri mostri d’arte si preoccupano solo d’arte e mai di cose terrene. Nabokov non si chiudeva nemmeno l’ombrello, era Vera che gli leccava i francobolli.
E hanno una forza impressionante che arriva a fine lettura di molti dei microparagrafi e che prosegue come un'eco:
Quando mia figlia torna a casa, ha le dita tutte rosse e nere, di un colore che non va via. “Ma guardati le mani! Cosa hai fatto?” le dice mio marito. Lei si guarda le mani. “Sono le mie mani, sono io la responsabile” gli risponde.
E poi ha una tenerezza quotidiana:
Lei manda un sms alla sua migliore amica. “Ore 23. Marito gioca ancora ai videogiochi”. Ting. Il marito la guarda. “L’hai mandato a me”.
Al momento, il mio più bel libro del 2015.




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