Continuo ad assorbire arti senza documentarmi su di esse. Per preservare la mia sorpresa.
Conoscevo questa serie, River, perché ne aveva parlato in modo lusinghiero, ma abbozzato, una persona di cui mi fido per cultura. È una di quelle persone che utilizzo come filtro.
I filtri sono importanti. L'atmosfera terrestre è un filtro che impedisce ai raggi ultravioletti di carbonizzarci la pelle, per esempio. Pensa se non ci fosse.
Pensa se tutte le forme d'arte fossero sempre senza filtri, che non significa non essere libere di esprimersi, ma prive di un giudizio. Una selezione è sempre importante: che avvenga a monte o a valle. Per quanto riguarda l'atmosfera, sono contento che avvenga a monte. A volte anche per la scrittura.
La scrittura perderà valore con il tempo, perché internet è fatta di immagini e di scrittura, e dove c'è il tanto c'è anche il disvalore. Pensa a un mondo pieno di polli, letteralmente invaso da essi, miliardi e miliardi di polli starnazzanti. Sentine il rumore, l'odore, il sapore. Quanto pensi varrà un pollo? Quanto vale un filo d'erba, ora?
Succederà così per la scrittura. Ce ne sarà così tanta che non varrà niente, nemmeno zerovirgolanovantanove euro. Sarà gratis. Tutti scriveranno gratis. I soldi li faranno con la trasformazione della scrittura in immagini, dalla vendita dei diritti per i nuovi padroni dell'intrattenimento visivo on demand. Dopo un altro po' di tempo perderanno valore anche le immagini, cioè quando sarà più facile farle. Quando potranno farle tutti. Fare le immagini: che bello il verbo fare. Lo usiamo così poco.
Ora, io non so come sia nata River, non siamo ancora in quella parte di futuro della scrittura. Di River conoscevo solo il parere schizzato di quella persona-filtro e l'immagine che vedi sopra.
Basta.
Ho toccato play sullo schermo e ho visto la storia così come dovrebbe essere raccontata. E l'ho anche sentita. Perché è una serie fatta di suoni di stoffa, di suole di scarpe, fruscii, silenzi. I suoni delle attese.
È tanto difficile parlare di qualcosa senza parlarne: perché mi piacerebbe che anche tu premessi play sapendo il meno possibile. Ti posso dire che vedresti primi piani, rughe, imperfezioni, le caruncole degli occhi di Stellan Skarsgård. La caruncola è quella pepita di carne che c'è nella congiunzione delle palpebre. Quel bottone umido da cui pensiamo vengano fuori le lacrime.
Stellan lo vedrai piangere poco. Ecco, già ti ho detto troppo.
Ho visto solo il primo episodio. Magari diventa la serie più brutta di Netflix, però, per adesso, mi tengo un poliziesco asciutto, a tratti semplice, con lacrime da andare a cercarsele nei dettagli.
Il muro di recinzione scrostato è lungo quattrocentodiciotto metri, alto due e mezzo, circa, e un tempo mi pare avesse per offendicula dei cocci di vetro, che quel giorno brillavano a turno sotto il sole della controra mentre camminavo nell'estate.
Quattrocentodiciotto metri non sono molti, ma la monotonia può cambiare le proporzioni di una vita come di un paesaggio. Quindi, dopo aver svoltato l'angolo, il muro di recinzione dell'ex ippodromo partiva alla mia destra come un fascio di calcestruzzo bollente che nel punto più lontano pungeva l'orizzonte di palazzi che già sapevano di periferia. Lo accompagnava alla mia sinistra la lingua di asfalto grigia maculata di buche. Gli alberi sul marciapiede, a intervalli di sei metri, o erano tronchi seccati dall'arsura o fantasmi dentro aiuole quadrate vuote.
Mi trovavo nell'angolo di una specie di lunghissimo parallelepipedo aperto e disabitato in cui camminavo per raggiungerti.
Il cielo non dava scampo alla ricerca di una dimensione perché stava lassù; aveva un azzurro così vasto che era impossibile misurare la grandezza delle nuvole pugliesi, immense quando vengono soffiate dallo scirocco come fossero vetro fuso.
Dunque, mentre camminavo per raggiungerti, io ero piccolo anche da adulto. Non so se scelsi quella strada per avere questa sensazione e prepararmi al tuo incontro.
Quella era la via delle auto, quei percorsi che a un certo punto sganciano i marciapiedi e costringono gli uomini a camminare su autostrade d'erba o rasenti a enormi sottopassaggi disegnati da spray di bombolette e di smog. Tutto era più grande di me, mentre andavo. Anche gli odori. Quando attraversai il cancello nero, mi slabbrarono le narici profumi di cemento, di terra, di petali e clorofilla; quest'ultima era così forte che sembrava canfora strofinata sul petto, impossibile da non respirare.
Anche il gelo della cripta era una distesa artica, e pure la tua foto, nonno, quando finalmente ti raggiunsi, aveva questa corona dorata fatta con i tesori di tutta El Dorado.
Il mondo era gigantesco.
Perché tu lo eri stato, nonno, e anche da morto costringevi l'esistenza alla tua grandezza.
Essendomi riavvicinato all'ascolto in cuffia recentemente, sono costretto a dover confrontare queste cuffie chiuse con l'unico buon termine di paragone in mio possesso: una Superlux HD 681 EVO, cioè una cuffia semiaperta.
L'accostamento non è poi così bislacco, dato che le NAD VISO HP 50 si fregiano della tecnologia “Room Feel”, che si propone di ricreare il suono riprodotto in una stanza all'interno dei padiglioni di una cuffia. In pratica, la curva delle frequenze è stata studiata per avere questo tipo di sensazione di ascolto.
Lo spiega molto bene Paul Barton, l'ingegnere PSB e NAD che ha progettato la VISO, in una lunga intervista per Head-Fi.org.
La sorgente di ascolto è composta da questa catena:
Come posso essere contento di un acquisto che non posso consigliare a nessun altro?
La risposta è: “Perché non conosco le dimensioni della vostra testa.”
La vestibilità delle NAD è l'unico grande difetto che, in cascata, può pregiudicare l'esperienza di ascolto.
Vi spiego perché.
Come mostrato dalla foto che segue, all'aumentare dell'estensione dell'archetto cresce anche l'incidenza dell'angolo degli altoparlanti.
Se ci pensate, è una condizione del tutto naturale per delle cuffie con estensione meccanica e non elastica, tuttavia bisogna considerare l'indosso complessivo che è dato dalle dimensioni della testa e dai punti di pressione stabiliti dal progetto costruttivo.
Ho una testa piccola. In quest'altra foto potete vedere come, indossando le cuffia con l'estensione minima, i padiglioni premano sulla parte superiore della testa lasciando uno spazio di fuga per le basse frequenze in quella inferiore, vicino al collo.
Quindi sono costretto a indossare le cuffie con l'estensione a due tacche e con uno spessore tra l'archetto e la testa. Buffo, buffissimo.
Ecco perché non posso consigliarvele. E anche se avete la testa grossa, potrei avere ancora qualche riserva, perché le ho fatte provare a due persone dalla circonferenza cranica maggiore che hanno comunque notato una fuoriuscita di basse frequenze.
Nel momento in cui scrivo questa recensione, le NAD VISO HP 50 si possono trovare a 269 euro (con garanzia italiana). E non me la sento di farvi rischiare tutti questi soldi, e poi devo comunque dare una penalità importante al rapporto prezzo/qualità progettuale. (Attenzione, ho detto “qualità progettuale”, non sonora.)
Allora perché, nonostante questo grave handicap, sono soddisfatto del mio acquisto?
Perché queste cuffie suonano maledettamente bene.
Comincio col dire che posso tenerle sulla testa per ore, sono leggerissime; ma il motivo principale sta nell'attrazione spasmodica che ho verso queste cuffie.
Le NAD chiedono di essere ascoltate. Quando le ripongo, vorrei non farlo. Quando le vedo sul divano, vorrei ascoltarle. Non sono impazzito: queste cuffie hanno un suono incredibilmente naturale, e il piacere di ascolto (e l'invisibilità dell'azione insita nel “mettersi ad ascoltare”) le fa apparire come un'estensione bionica del mio cranio.
La tecnologia “Room Feel” funziona. Non ha nulla di miracoloso, sia ben chiaro, però l'ampiezza del suono è identica a quella delle Superlux HD 681 EVO (semiaperte), tranne che per la sensazione di origine della musica. Nelle Superlux la sorgente è un punto piccolo, nelle NAD è una parete sonora, come si può vedere in questa rappresentazione grafica della geometria musicale percepita. Il suono è dunque rettangolare, ampio, ma senza spigoli.
I bassi (dopo aver indossato le cuffie con la corretta pressione sulle orecchie) sono secchi, precisi, sono dei tocchi pesanti molto veloci, percepibili soprattutto (ma non in modo esclusivo) all'inizio dello spettro acustico. Quelli delle Superlux sono più gonfi, e danno un supporto maggiore ai medi.
Non posso dire di avere una preferenza tra le due sensazioni di ascolto sulle basse frequenze. Mi piacerebbe avere il sostegno dei bassi delle Superlux e la precisione e l'asciuttezza di quelli delle NAD.
Dai grafici di riposta in frequenza si capisce che le gobbe sulle basse frequenze sono invertite nelle due cuffie, ed è chiaro perché le Superlux diano un sostegno maggiore trai 100Hz e i 30Hz e le NAD una consistenza maggiore all'inizio dello spettro acustico.
(Nel grafico di Innerfidelity tenete conto della traccia RAW grigia, non di quella colorata che è una compensazione... troppo lungo da spiegare qui. Sul sito di Innerfidelity c'è un lungo approfondimento.)
Ricordo che la risposta in frequenza delle NAD è stata progettata per avere questo andamento, e si basa sugli studi acustici di Sean Olive.
I medi e i medio alti sono il punto forte delle NAD. Queste sono cuffie per le voci. Non si possono descrivere diversamente. Non si tratta di dimensioni, le voci possono apparire più grandi o più piccole a seconda della registrazione musicale, si tratta di protagonismo. Le voci riprodotte dalle NAD hanno un palcoscenico ben illuminato (come tutti i suoni che finiscono in questa sezione dello spettro), ma non sono prepotenti, lasciano spazio intorno a loro, come se allargassero le braccia per accogliere gli strumenti attorno.
Fantastico.
Gli alti. Il calo progettato dai 10KHz in su ovviamente si percepisce, però è invisibile. Bizzarro, vero?
Con queste cuffie non ascolto musica classica. Le corde degli strumenti ad arco sono un po' più spesse rispetto alla riproduzione delle Superlux, che invece sono lame di rasoio. Quindi, no, non sono cuffie per la classica (o non specificatamente per essa); e per gli altri generi, vi starete chiedendo? Per questo ho detto poco più su che il calo è invisibile, perché si guadagna in naturalezza di ascolto. Infatti non sto dicendo che gli alti sono chiusi, attutiti; sto dicendo che non “pungono”.
C'è un album, in particolare, che con le Superlux era TOTALMENTE inascoltabile: “The Wheel” di Laura Stevenson. È un album fatto di piatti di batteria, di trilli; e Laura ha pure una voce penetrante, come se al posto della gola avesse una cannuccia. Le Superlux erano semplicemente fastidiose. Non riuscivo ad ascoltare più di una canzone. Le NAD invece sono accoglienti e, soprattutto nella canzone “Bells and Whistles” (nomen omen!), coccolano gli alti così come le Superlux li rendono intrattabili e isterici.
In generale, con le NAD riesco a fare cose mentre ascolto. Le Superlux, invece, pretendono attenzione, sono più affilate, sono prepotenti. Ordinano: “Non avrai altre attività all'infuori di noi!”
Le NAD sono dolci, attente, servizievoli. Buone.
È la somma delle percezioni uditive che rende le NAD cuffie spettacolari.
Il suono è naturale, mai graffiante, ma nemmeno mai opaco e attutito. È preciso, rapido, ortogonalmente esteso. Direi che è “umano”.
L'ho già detto nelle risposte all'intervista che mi ha fatto Feltrinelli (clic), però mi piace ribadirlo anche qui. La civiltà così come la conosciamo – quella occidentale, almeno – è il fremito di una membrana spessa pochi micron. No, non lo sto dicendo ancora bene. Ricomincio: la civiltà è il make-up del caos. Sotto il trucco, noi siamo caos, siamo rabbia, siamo fame, siamo sopravvivenza; perché un paio di migliaia di anni di evoluzione civile sono nulla se confrontati con i milioni di anni che hanno costruito le ossa, avvolte nella carne, irrorata dal sangue. Se un domani, per una distopia, da un giorno all'altro sparisse ogni forma di ordine pubblico, ma anche ogni forma di giurisdizione e di organo competente, e se l'uomo fosse messo di nuovo di fronte alle ossa, alla carne, al sangue, al freddo, alla sopravvivenza, tu cosa pensi accadrebbe? Immagina di essere nella tua città, o nel tuo paese, nella tua casa, insomma, e di essere bloccato da mesi dalla neve venuta in una quantità tale che l'universo è un buon metro di paragone, senza più contatti con il mondo, senza internet, senza tv, o radio, ma anche senza energia elettrica, senza gas. Tu cosa faresti per rimanere in vita? Per restare al caldo, per mangiare. Cosa faresti, per esempio, se avessi già bruciato il salice che avevi in giardino e ti accorgessi che il tuo vicino ha ancora, secco e morto, lo scheletro di legno di un pioppo nel suo pezzetto di terra? Ricorda che stai morendo di freddo. Forse non mangi da due o più giorni e bevi granita di neve gelata. Tu non lo andresti a prendere quel pioppo? Ho raccontato una cosa del genere in un'istantanea narrativa che Feltrinelli, nella sua collana Zoom Filtri, ha deciso di far leggere a tutti. Non si sa mai. (clic) EDIT: Qui, invece, (clic) trovi ciò che pensa Umberto Rossi del mio ebook. Umberto Rossi ha tradotto Lansdale e Dick, e sa di fantascienza tanto quanto io non ne so di prodotti per capelli.
@Laurindo Feliciano direzione artistica: @46xy @Enne Enne Editore
È già successo con Stanislaw Lem e "La voce del padrone" e ci ricasco con "Sembrava una felicità" di Offill (ci hai fatto caso che non ho usato la preposizione articolata per il introdurre il cognome della scrittrice Offill? Sto provando a disintossicarmi dalla grammatica maschia, che ha bisogno di marcare l'informazione di genere quando non è necessaria: come quando senti al TG "la Camusso" o "la Boschi". Non dicono "il Renzi" o "il Grillo". Perché sottolineare la differenza? Per una distanza? Per una rarità?). Dicevo, come è successo per Lem, ora io questo libro a chi lo consiglio?
Nel mio mondo perfetto, a tutti.
Ma il mondo è molto meno che perfetto, perché altrimenti le persone avrebbero già smesso da tempo di costruire automobili con i motori a scoppio, e gli scrittori avrebbero smesso da un pezzo di usare "un rumore sordo". Infatti, nel suo libro, Offill non ha usato nemmeno una volta "rumore sordo", ma non posso sapere se utilizza un'automobile a petrolio, quindi anche lei non si può dire perfetta, ma ci va molto vicino se mi soffermo a osservare la sua scrittura.
Ora, il malmostoso di turno, che ha smesso di leggere le altre parole del periodo precedente quando ha incontrato la critica indiretta, dirà che non c'è nulla di male nell'utilizzare "rumore sordo", e avrà ragione, perché l'ho inserito anch'io da qualche parte, per forza. È come pretendere di iniziare a camminare a nove mesi senza ricadere sui palmi almeno un centinaio di volte. Quello che "rumore sordo" ha e che Offill non ha è il concetto di scrittura a moduli. "Rumore sordo" è una di quelle locuzioni in vaschetta da tenere nel freezer. I rumori di Offill intanto sono molto precisi e non sono sordi, e poi sono cotti al momento dopo un attento ripasso della ricetta.
La cosa davvero buffa è che la scelta stilistica di Offill fa proprio pensare a dei moduli o a un errore, tanto che io ho comprato l'ebook e, complice la fretta di internet e abituato ad alcune formattazioni fatte in casa su Amazon, ho contattato NNEditore su Facebook affinché mi spiegasse perché gli accapo fossero tutti paragrafati. Dalle parti della casa editrice milanese sono molto cortesi e disponibili, perché a domanda gentile hanno risposto con un sorriso grande così (c'era davvero la faccina) e mi hanno spiegato che è stata una scelta dell'autrice. E io, ah, oh, già, sarebbe bastato leggere le prime pagine senza mettersi a scrivere di corsa, maledetta internet e maledetto me.
Quindi il fascino per questo libro era già tanto prima ancora di iniziarlo, perché sapeva di nuovo e perché avevo avuto modo di incontrare persone gentili: quella gentilezza che può arrivare solo dalla passione, non so se capisci quello che voglio dire, e se pensi che queste cose possano influire sul giudizio di un'opera letteraria, sì, possono farlo, perché siamo persone, siamo fallibili e usiamo "rumore sordo" e le macchine a scoppio, ma "Sembrava una felicità" rimarrebbe un bel libro anche senza niente di tutto questo, senza locuzioni congelate e senza motori, a patto però che nel mondo rimangano le persone, perché è di questo che parla il libro, di persone: una moglie e un marito, e sceglie di farlo prendendo pezzetti di ricordi di lei che diventano microstorie, a volte autoconclusive. Tutte insieme però formano il mosaico di una crisi. E che mosaico! Attento, non ho detto "che crisi!", perché spogliata di tutto la storia è molto semplice, qualcuno abituato ai "rumori sordi" direbbe "banale", ma è il modo in cui si sceglie di raccontare la banalità che rende bello guardare le stelle.
Tra un miniparafrago e un altro, Offill è come se lanciasse dei piccoli ganci che vanno ad artigliare quelli che seguiranno o a recuperare quelli che li hanno preceduti e lo fa nascondendo, invece di spiattellare tutto. È più bello giocare a nascondino in una savana o in un castello con centinaia di stanze in penombra?
Sull'ereader ho evidenziato venticinque pezzetti di "Sembrava una felicità" e solo perché non mi andava di perdere il ritmo, ma accidenti quanta intelligenza devono possedere le dita di questa donna, e quale capacità di osservazione.
Ti lascio un pezzo che fa su e giù come una montagna in pochissime righe, e alla fine della discesa ti fa vedere un mondo. Ecco:
Il marito e la moglie stanno litigando sottovoce. La modalità di combattimento concordata è a mani nude. Lei gli dà del vigliacco. Lui della puttana. Però non sono ancora molto allenati. A volte uno dei due si ferma all’improvviso e offre all’altro un biscottino o qualcosa da bere.
Oppure eccone un altro che incornicia ventimila anni di esistenza:
Il mio piano era non sposarmi mai. No, io volevo diventare un mostro d’arte. Le donne non diventano mai mostri d’arte, perché i veri mostri d’arte si preoccupano solo d’arte e mai di cose terrene. Nabokov non si chiudeva nemmeno l’ombrello, era Vera che gli leccava i francobolli.
E hanno una forza impressionante che arriva a fine lettura di molti dei microparagrafi e che prosegue come un'eco:
Quando mia figlia torna a casa, ha le dita tutte rosse e nere, di un colore che non va via. “Ma guardati le mani! Cosa hai fatto?” le dice mio marito. Lei si guarda le mani. “Sono le mie mani, sono io la responsabile” gli risponde.
E poi ha una tenerezza quotidiana:
Lei manda un sms alla sua migliore amica. “Ore 23. Marito gioca ancora ai videogiochi”. Ting. Il marito la guarda. “L’hai mandato a me”.
Qualche settimana fa, per qualche tempo, che può essere anche un paio di giorni, dopo una brutta esperienza mi ero ripromesso di non scrivere più della morte.
Mi dicevo: «Ne ho davvero bisogno? È davvero necessario parlare della morte quando ce n'è così tanta intorno?»
Che io qualche settimana fa non fossi riuscito a darmi una risposta avrebbe dovuto dirmi pur qualcosa. Infatti, me lo ha detto; anche se l'ho sempre saputo, perché è una di quelle banalità necessarie che sbocciano come istinti, come quando finisci dentro un lago freddo dopo che si è spezzata la lastra che ti teneva su e pensi senza fiato: Ma l'acqua è gelata!
La vita e la morte formano un torciglione così stretto che si può tranquillamente dire che si muore mentre si vive e si vive credendo di essere morti, senza fare danni ai nodi della treccia. Tutto rimane bello in ordine, in modo ineluttabile, come nel racconto di Francesca Fichera, Nella luce, vincitore del Premio Short Kipple 2015.
Non esiste una dimensione minima in caratteri per poter recensire un testo, anzi, rimpiango di quando le persone riuscivano a tirare fuori lo spazio di un saggio da un testo piccolissimo, però io scelgo di non recensire questo racconto breve perché non mi va di farlo: non nel modo canonico, almeno. Anche perché il testo è allegorico, seppure concreto, e anticiparlo troppo vorrebbe dire perdersi l'incoscienza della sorpresa. Il racconto lascia tanti fili scoperti, ma è chiaro dalla quarta riga che il suo intento non è quello di fare cappucci di nastro isolante, ma di accompagnare il lettore in un viaggio visionario ma tattile verso una fine, un termine.
Ho sempre trovato curioso il modo in cui le persone identifichino automaticamente il mare come una via di salvezza in caso di pericolo. Se ci pensi, il mare è un altro termine, soprattutto quando non si hanno altri mezzi di locomozione che non siano i piedi.
Tu arrivi al mare e hai una piazza d'acqua pressoché infinita che non puoi calpestare. È un gigantesco e libero vicolo cieco, specie se alle spalle hai un pericolo concreto. Eppure il mare è una salvezza, è un luogo che fa da punto cardinale, ovunque tu sia saprai dove trovare il mare, è il faro di tutti i fari. Il mare è una sicurezza, un posto certo in un mondo in rapido cambiamento, un amico, un parente, un'intera famiglia a cui stringersi, da cui andare, e aspettare qualsiasi cosa stia arrivando contro la tua volontà.
Musica in sottofondo mentre si legge il racconto: qualsiasi di Joseph Trapanese, anche per ristabilire i rapporti di appartenenza della colonna sonora di Tron Legacy, nella quale i Daft Punk ci hanno messo solo gli unz-unz-uò-uiii e si sono fatti belli alle spalle del compositore americano.
La brava (anche come persona, mica solo come disegnatrice) Patrizia Mandanici, attualmente in forze presso Sergio Bonelli Editore, ha deciso di regalarmi un po' del suo tempo per fare due chiacchiere e chiedermi un po' di cose.