lunedì 14 luglio 2014

Cos'è rimasto della peste

Sergey Kritskiy, ©Snob Magazine


Questi sono gli appunti che mi ha lasciato Camus:

Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.
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 Se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io oggi conosca.
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Impazienti del proprio presente, nemici del proprio passato e privi di futuro, somigliavano a coloro che la giustizia o l’odio degli uomini fa vivere dietro le sbarre.
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La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi.
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Rispondeva che c’era sempre un’ora del giorno e della notte in cui un uomo era vile, e che lui non aveva paura se non di questa ora.
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Il male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può fare guai quanto la malvagità, se non è illuminata. Gli uomini sono buoni piuttosto che malvagi, e davvero non si tratta di questo; ma essi più o meno ignorano, ed è quello che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede di saper tutto e che allora si autorizza a uccidere. L’anima dell’assassino è cieca, e non esiste vera bontà né perfetto amore senza tutta la chiaroveggenza possibile.
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Rieux, raddrizzandosi, disse con voce ferma che la cosa era stupida e che non c’era vergogna nel preferire la felicità.
“Sì”, disse Rambert, “ma ci può essere vergogna nell’esser felici da soli”. 

Albert Camus, La peste [1947], Milano, Bompiani, 1948 [Trad. Beniamino Dal Fabbro]

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