Un miliardo di anni fa scrissi un racconto (ora illeggibile) intitolato "Quando Dante scrisse La Gioconda" ambientato in una realtà futura iperfunzionale che ha dimenticato cultura, natura, rapporti sociali. La protagonista è una studentessa universitaria che la sera prima dell'esame si perde nelle campagne attigue alla metropoli e si scopre a guardare per la prima volta un cielo stellato. Nella sua realtà nessuno osserva più il cielo perché lo si è già visto. Ma l'ovvietà porta alla dimenticanza.
Per me la banalità è il toccare con mano l'ovvio e renderlo di nuovo comune.
Il cielo azzurro, l'acqua di un fiume, il contatto di pelle. Dando le cose per scontate ci si dimentica di esse, o meglio, si perdono le sensazioni che trasmettono.
Feci questi ragionamenti qualche anno fa, quando lessi articoli di mamme lombarde che portavano i figli in campagna per mostrare loro che i polli sono animali e che le coscettine non nascono dentro il polistirolo nel supermercato; o di un nutrizionista che spiegava che il gusto dei frutti percepito dai nostri figli è associabile al surrogato dei composti chimici piuttosto che a quello dei frutti staccati dagli alberi; o di un fonico che accertava che gli adolescenti riconoscevano il suono di un MP3 migliore di un formato non compresso perché abituati a un certo tipo di frequenze.
Ecco, per me la banalità è la riscoperta della vita basale.
Banalità non vuol dire fermarsi alle cose semplici, ma partire da queste per capire e cambiare.
Basta poco per cadere nell'ovvio e nello scontato. Dovremmo girare tutti con i tacchi a spillo per poter guardare un pò più in su di noi.
RispondiEliminaUn giorno passeggiavo con mio figlio sulla strada che guardando in una pozza di gasolio esclamò: "Guarda mamma! L'arcobaleno!"
RispondiEliminaSimonetta Brambilla alias Missi ;)
:)
RispondiEliminaLa meraviglia nelle piccole cose. Anche in quelle brutte.